Mauro Minelli, la storia dell’allergologo e immunologo che ha fatto della sua professione una missione di vita
Una passione senza incertezze
“Voglio fare il dottore” mi dicevo da bambino e iniziai, così, a percorrere la mia strada, persuaso dell’autenticità di una passione inarrestabile e che animava le mie ricerche più ostinate. Ero solo un adolescente quando perlustravo ogni angolo di casa alla ricerca di quei libri impolverati e preziosissimi su cui aveva studiato mio zio, il fratello di mio padre, medico del paese in cui abitavo. Per me era un esempio: non sbagliava mai; ogni sua valutazione era corretta. Vincente. Ed io, osservandolo, finivo per appassionarmi sempre più a quel mestiere, a quella professione, a quella missione.
Covava in me, peraltro, un bisogno quasi inconscio di compensazione. Quella voglia malcelata ma risoluta e positiva che attraversa gli animi delle persone che vivono di una vita semplice. I miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla; mia madre era una donna che donava tutta se stessa alla famiglia e mio padre mi piace ricordarlo durante la mia infanzia mentre coltivava fiero le sue campagne. Una famiglia buona, che ha reso me un bambino felice, eppure determinato nel riuscire a realizzare un progetto, a rendere concreta un’idea lungamente immaginata, quasi coccolata, certamente attesa.
Un’ isola felice
Terre rosse battute dal vento, popolate da cipressi snelli e flessuosi su fondi collinari desertici e incantati. Sono così i paesaggi della Val d’Orcia nella quale è incastonata, fiera della propria storia, la città di Siena.

Mi muovevo dal Salento portando con me valigie pesanti, cariche di panni ripiegati ma soprattutto di passioni convinte. Approdavo in un’isola felice. Un “borgo” nel quale era sempre possibile acquisire dosi generose e preziose di quel sapere scientifico magistralmente impartito da docenti accorti e disponibili ben oltre le ore canoniche delle loro affollatissime lezioni. Vivevo nella profonda convinzione che mai avrei potuto abbandonare quella postazione così favorevole. E, invece, per crescenti problematiche familiari soprattutto legate alle sempre più precarie condizioni di salute di mio padre, fui costretto a rivedere quel convincimento. Fu così che decisi di proseguire il mio percorso universitario a Bari dove, da subito, mi si prospettò una realtà ben diversa dalla precedente, tra l’altro caratterizzata da una popolazione studentesca tanto numerosa da non poter certamente concedere il privilegio di quel contatto diretto tra studenti e coi docenti. E’ stato come aver perduto la percezione di quel senso di famiglia, all’interno della quale ciascuno si conosce e a cui ciascuno sa di appartenere.
I primi passi
Occorre “rubare” i gesti, gli sguardi, le parole dei Maestri, salire sulle loro spalle ed esercitarsi a guardare il mondo dalla loro altezza, prima di giungere alla consapevolezza di essere pronto ad intraprendere la “tua” professione. Ed occorre investire sulla formazione cercando conferme, confronti e possibili allargamenti d’orizzonte anche fuori dai confini del tuo ordinario raggio d’azione. Ogni paziente ha la ”sua” storia da raccontare e i “suoi” problemi da risolvere attraverso interventi mirati e affatto codificati da regole universalmente applicabili a tutti e in ogni luogo. Ci si accorge, in quei frangenti, di quanto la pratica clinica “di trincea”, pur certamente attingendo dalla Dottrina i propri fondamenti e la propria credibilità, abbia bisogno di essere, di volta in volta, modellata come plastilina, collocata in ambiti applicativi non sempre previsti dai “sacri testi”, quasi “cucita addosso” ad ogni singolo ammalato.

E ritornava, puntuale ed impellente, il monito discreto dei Maestri nelle loro indimenticabili lezioni: “… e poi ragazzi, tenete bene in mente che il malato non sarà mai soltanto un polmone, un naso, un rene o un’articolazione dolente…! Il paziente sarà, comunque, sempre una persona, da vedere ed inquadrare nel suo insieme, nella sua integrità, nella sua interezza. Ricordatevi di cercare Persone prima che sintomi!”. Parole chiave per riaprire la cassetta degli attrezzi, quell’originario “scrigno di competenze” da cui estrarre con sicurezza gli strumenti operativi più utili e precisi. Da utilizzare sempre nella loro straordinaria versatilità, indipendentemente dai contesti.
Verso il progetto di vita
Questa volta la “sfida” – erano i primi anni del 2000 – si giocava presso una postazione ospedaliera di “Pronto Soccorso”. Un mondo per me totalmente nuovo, inimmaginato, intriso di dolore e di velocità, dove il tempo, nella sua assoluta preziosità, sembrava non esistere. Occorreva agire e farlo subito. E fu grazie a quell’incarico, temporaneo ma proficuo, portatore di esperienze inedite e non altrimenti ripetibili, che acquisii attitudini professionali importanti, anche perché in gran parte lontane dalla mia specializzazione. Seguì, subito dopo questa parentesi durata comunque due anni, il mio accesso, in qualità di dirigente medico di I livello, in un reparto di medicina generale, uno di quelli “di frontiera”, ubicato in un piccolo ospedale periferico dove, pure in assenza di presìdi d’emergenza dedicati a terapie intensive o rianimatorie, era possibile che arrivasse di tutto. Si aprì, così, un nuovo fantastico scenario che, diventando un tutt’uno con le preliminari teorie speculative dell’immunologia studiata sui libri, cominciava a diventare sintesi, trasformando in proficua prassi quotidiana le basi concettuali di una dottrina raffinata, tutta da scoprire e da attuare con coerenza e convinzione. E le premesse, già di per sé corpose, si trasformarono plasticamente in progetto di vita!
La mission prende forza
Mettere al centro la “Persona ammalata” è certamente l’impegno più oneroso per un medico e per il sistema nel quale egli opera. Ma è anche la gratifica più entusiasmante, la più reciproca in termini di scambievole soddisfazione con il paziente che in quel medico ha riposto ogni fiducia. Ero in Puglia. La stella polare era l’IMID: un acronimo, un progetto, un mondo sommerso, una galassia da esplorare, una start-up innovativa da sperimentare, una “missione” comunque inedita, entusiasmante, forse rischiosa per quanto apparentemente non impossibile. Si trattava di portare ad unità logistica ed operativa i tortuosi percorsi sanitari ed assistenziali destinati ai pazienti affetti da uno dei tanti Disordini Infiammatori Immuno-Mediati (IMID); patologie clinicamente coinvolgenti organi diversi, ma tutte connesse ad un’unica causa generatrice: uno scompenso funzionale del sistema immunitario. Non più ricoveri ed osservazioni multiple e scollegate. Non più monadi indipendenti ed indivisibili, ma un unico piano operativo nel quale competenze diverse, ragionando all’unisono, si disponevano a realizzare nuove opzioni gestionali integrate, a supporto di patologie diffusissime e assai costose nella loro progressiva evoluzione.
I risultati danno ragione
L’idea prendeva piede e si consolidava all’interno di un modulo operativo che paradossalmente individuava in un contenitore atipico il proprio ambiente ideale: un contesto ibrido “ospedale/territorio”, qual era quello immaginato e creato in una realtà periferica del Salento, risultava valido e vincente anche grazie all’intervento integrato di più specialisti ambulatoriali a favore di pazienti clinicamente in carico ad un’unità di degenza improntata ad una vision “sistemica” della patologia cronica immunomediata. I risultati ci davano ragione. Il trend della migrazione sanitaria cominciava visibilmente ad invertirsi considerando il numero sempre più crescente di pazienti che da altre regioni affluivano verso quella struttura pure così tanto decentrata.

Affrontare e comunicare, anche con pubblicazioni e libri dedicati, questo insieme intricato di questioni tra loro strettamente interagenti, fu uno degli obiettivi strategici di quel progetto certamente ardito e tenacemente perseguito con una perseveranza che trovava rinforzo nella buona riuscita in sede clinica, e riscontro nell’apprezzamento in sede scientifica e sociale.
Al centro del mio agire
Credo sia, per chiunque, difficilmente perseguibile l’obiettivo di dedicarsi integralmente ad una passione professionale e “vivere” autenticamente il proprio lavoro, in assenza di un supporto robusto e costante, opportunamente calibrato per sorreggere un impegno spesso così tanto operosamente sostenuto da rasentare, se non correttamente compreso, perfino l’egoismo. Ed è nelle pratiche quotidiane di questo vissuto perennemente intenso, aprioristicamente non facili da accettare per quanto poi tacitamente affidate ad una comprensione e fiducia illimitate, che ti accorgi di avere dalla tua, a far la differenza, una famiglia speciale. Avevo sedici anni quando incontrai mia moglie. Era l’estate del 1974: da uno scambio del tutto occasionale ebbe inizio una storia che, sul filo della continuità, si protrae ininterrotta da oltre 40 anni, fondandosi – oggi come allora – su un’oggettiva capacità di integrazione, di sintonia, di reciproco credito e rispetto. Su tutte, certamente predomina – in mia moglie – la grande virtù della pazienza unita alla formidabile capacità di colmare le mancanze e di creare i pieni.

Da quel rapporto – intenso ma semplice, costante ma discreto – sono nati tre figli, a loro volta impegnati a percorrere ciascuno la propria strada, seguendo passioni e ideali soggettivi. Ovviamente senza forzature o imposizioni di alcun genere, nel mentre la sensibilità e l’accortezza della madre, capace di esercitare su ciascuno dei tre un contatto ininterrotto e una presenza rassicurante, continua a permettere al marito di essere medico impegnato e padre amato.
Dall’epopea del Don Chisciotte al mito della Fenice
Nell’abbraccio dei suoi mari riposa la mia terra d’origine: il Salento. Una terra variopinta, ventosa e assolata, talvolta arida e coriacea nella dura consistenza delle sue contraddizioni. In quella stessa propaggine della Puglia, chiusa quella mia breve parentesi fondata sull’impegno sociale e a quest’ultimo integralmente dedicata anche in ragione della delega alle politiche sociali contemporaneamente assegnatami in seno alla Unione delle Province Italiane, ha cominciato a montare e a prendere forma quell’intuizione originaria e a lungo meditata che, in buona sostanza, provava a cogliere l’ineliminabile legame tra “il nuovo” scientifico ed organizzativo, sempre più emergente ed incalzante, e la necessità di rendere possibile il suo pieno esplicarsi per i pazienti… per tutti i pazienti, anche per quelli confusi nelle pieghe di un sistema concettualmente e strutturalmente piegato all’esclusivo trattamento della malattia acuta. Come se questa fosse l’emergenza!

Al meglio… per la convinta adesione agli affascinanti protocolli della Personomica, nell’ottica vincente e convincente della Patient-centred Medicine. Al meglio… per la felice attivazione del Network PoliSmail, logisticamente dislocato in più sedi sul territorio nazionale, immaginato in termini di unità specialistica funzionale all’espletamento, sia pure ambulatoriale, delle più rilevanti pratiche diagnostiche da destinare ai pazienti immunopatici, ed evidentemente dedicato – e non poteva non esserlo tanto nell’idea quanto nella sostanza oltre che nell’immagine evocativa – ad un airone cinereo, mito per sempre capace di rinascere dalle proprie ceneri. Al meglio… per la concreta opportunità, felicemente venutasi a creare presso l’Ateneo dell’Università Pegaso, di traslare concretamente l’ossatura della precedente esperienza in un impegno formativo. Un progetto ambiziosamente finalizzato a costruire e a proiettare verso il futuro un nuovo, generale paradigma improntato al confronto e all’interazione e, per questo, indispensabilmente fondato sulle prassi metodologiche della didattica e della formazione avanzate.

E sempre lì, in quella mia terra d’origine inaspettatamente popolata di mulini a vento come nei paesaggi di Cervantes, ho scoperto a mie altissime spese professionali che, a volte, non la razionalità e la purezza teorica guidano le decisioni, ma le emozioni, gli istinti, le pulsioni.
Perseguire e trovare il proprio credo
Che il curare è credere, che la salute è più che un’assenza di malessere, che il burocraticismo aziendalistico e il diritto, spesso senza dignità, non bastino, è il sottofondo, è la precomprensione, è la lente di chi vive e annota. Tra l’espresso e il sotteso rimane, comunque, da salvaguardare e da rilanciare il senso della relazionalità, della ricerca, del rapporto, del dialogo in un contesto, peraltro, ancora vivo di comunità e di vissuto comunitario, di vincolo religioso, di “meridionalità”, di “civiltà meridiana”, di emancipazione e di impegno. Vivere oltre questa tensione, oltre la medicina così come istituzionalizzata e organizzata, diventa una ricerca di biomedicina, di nuova qualità della medicina che si iscrive, a pieno titolo, in quella crisi contemporanea della democrazia. Curare e credere, curare è credere… è amare. Una ricerca che non può arrestarsi, tra confessione e tensione, tra aspirazione e delusione… con una forza d’animo dentro, con un forte e solenne richiamo alla Pazienza…. virtù medica, ma anche, soprattutto “politica”… pazienza democratica, perché l’impazienza non prevalga!